IL DIALOGO NEGATO CON TONDELLI

 

 

 

 

di Antonio SPADARO

 

in Stilos, 11-24 ottobre 2005

 

 

Laterza ha da poco pubblicato il volume di Enrico Palandri dal titolo Pier. Tondelli e la generazione. L’autore è amico e coetaneo di Tondelli. Tondelli è morto, Palandri è vivo. Non è una differenza da poco. Lo dico perché questo libro sembra rispondere più al desiderio di un confronto impossibile e negato che a una riflessione su Tondelli e la sua opera. Lo stesso Palandri afferma: «Pier non è dunque tanto l’oggetto, ma l’interlocutore di queste pagine». È vero. Si ha l’impressione che il Tondelli di cui parla Palandri sia una sorta di fantasma, dalla natura ectoplasmatica. Si può dialogare con lui, lo si può attraversare, ma non toccare. Il ritornello di queste pagine è letteralmente il binomio «io e Pier». Le pagine sono il tessuto di un lungo monologo in cui chi parla riferendosi all’altro parla in realtà di sé, in un lavoro di scavo circolare intenso, ma anche estenuante perché frutto di un dialogo, che diventa un confronto appassionante ma anche, a tratti, imbarazzante (come lo è ogni ermeneutica dell’amicizia). Sotto il filo del discorso si avverte distinto il bisbiglio di un lungo e lento stream of consciousness.

Il lavoro di Palandri è quello di ricollocare bene e fino in fondo la figura di Tondelli nel tessuto storico-culturale degli anni Ottanta. La cosa principale per lui è affermare che quella di quegli anni è stata la generazione «mia e di Pier» (io e lui, ancora). Una generazione di «eretici»: «perché se la storia è sempre storia dei vincitori, l’eresia è la storia degli sconfitti». Lui ed io: eretici e sconfitti. Il clichè del perdente colpisce ancora, rafforzato dal mito dell’eretico (con gli ovvi e triti riferimenti ripetuti al Concilio di Trento e alla Chiesa Cattolica e alla Santa Inquisizione, e a quant’altro…). Questo è un libro buio e cupo, in realtà. Lo stesso Palandri ricorda che Tondelli considerava la sua visione «angosciante e castrante». La verità è che i percorsi (ma soprattutto le radici) di Tondelli e di Palandri sono molto differenti. Palandri non parla mai (se non in un accenno rapido) delle radici contadine (e cattoliche) di Tondelli, che non sono affatto quelle di Palandri, però. Il suo sembra un discorso sincronico, tutto stretto sul fusto di una condizione generazionale, dalla quale Tondelli però, fortunatamente, è sempre riuscito ad evadere con uno sguardo obliquo, pur essendoci immerso (è questo il genio tondelliano).

Tondelli, in pochi anni, è riuscito a vedere (e a descrivere) quel che aveva sotto gli occhi, ma anche la penombra, o meglio il lato negativo del positivo visibile. Tondelli è stato un autore in fuga, non innestabile radicalmente, anche se saldamente sempre ancorato nelle proprie radici. Questo lo rende aperto a tutte le letture possibile: gender studies, lettura teologica, lettura storico-culturale, lettura generazionale, etc. Ma rende improduttive sia letture asettiche o equidistanti (non stupisce che Palandri citi spessissimo un libro di Roberto Carnero che è appunto introduttivo, dimenticando nel testo ogni altro riferimento, e fornendo una bibliografia finale troppo incompleta). Ma soprattutto rende impossibile quel che Palandri sembra voler realizzare: ibernare lo scrittore Tondelli nel metro quadrato di una sensibilità storico-generazionale, che ha fatto per altro il suo tempo. Se molte pagine di Tondelli vivono (non «sopravvivono» archeologicamente) ancora, è per la qualità dello sguardo che le ha generate, non per il perimetro storico-sociologico-culturale (quel che Palandri definisce «i suoi contesti») nel quale sono nate. Certo, «Pier ha cercato di raccontare un modo di essere nel proprio tempo legato allo scrivere, ha affidato al romanzo alcuni motivi sottesi alla difficile modernità italiana ed europea». È verissimo. Ma quale sembra essere l’idea che Palandri ha della letteratura? «La letteratura – scrive – offre forse l’immagine più fasulla della storia, proprio perché è sia sognatrice che vittima della vanità di spiegare». Cosa pensava Tondelli? Altro. Egli, infatti (e proprio parlando dell’amico Palandri!) affermava una «fiducia nella letteratura» che riconosce come sia «possibile risolvere la frattura tra quotidiano e fantastico, ricercare con le parole una propria identità»; soprattutto come sia «possibile affidare alla letteratura, al libro, la comunicazione di una propria esperienza e di un proprio linguaggio reali». Due universi paralleli, dunque? No, forse. Ma certo molto differenti, che il tempo e l’amicizia ha accostato e unito, senza però confonderli.

Il libro di Palandri su Tondelli è accorato perché dentro c’è Palandri che parla di Palandri. E la coscienza di Palandri è inquieta, viva. Forse mai è stato scritto e si scriverà su Tondelli un libro così coinvolto. In questo senso è un libro vero, da leggere. Si ha però come l’impressione, alla fine, che il libro sia stato scritto non su Tondelli certo, come si diceva, ma per Tondelli. Lo si capisce dal titolo, tra l’altro: Pier. Tondelli e la generazione. È un titolo criptico, ammiccante, privato, come se fosse per parole private dette in pubblico. Chi è «Pier»? La risposta è nel sottotitolo. Quale generazione? La sua, la loro. Sì, il libro è una sorta di lettera postuma, che contiene ricordi, ammiccamenti, simpatia, antipatia, precisazioni, rimproveri, complicità. Già lo chiedevo a Palandri in un dialogo poi pubblicato on line dall’Università di Bologna e citato in Pier: in questo confronto serrato, io che in quegli anni Ottanta sono
entrato quando ero appena quattordicenne, che posto ho (e, con me, tutti gli altri lettori venuti «dopo»)? Dunque io «non c’ero». Io e gli altri, se
abbiamo uno svantaggio (la non conoscenza immediata di ciò che voi avete
vissuto, la vostra contemporaneità), forse abbiamo però un vantaggio su tutti i possibili Palandri: essere un po’
più distanti, vedere le cose da una posizione più obliqua e prospettica.
Tondelli al di là della sua (cioè della «vostra», «loro») generazione. Un altro vantaggio personale per me (almeno così io reputo): lui ha frequentato i suoi amici e il suo «clima», io per anni i libri della sua biblioteca personale con tutte le sue annotazioni e sottolineature. Un’esperienza indimenticabile.

Ma questo di Palandri era un libro necessario. Doveva essere scritto, era nell’aria. Bisogna tener conto di queste pagine come si tiene conto di una testimonianza fin troppo sofferta e spaesata. Posto ciò, si potrà proseguire verso una lettura ampia, interessata a
ricercare quale sia il sostrato di umanità che emerge dalle pagine
di Tondelli, le sue tensioni interne più profonde e radicali (persino metafisiche!, perché no?); la sua “moralità” nel senso più radicale del termine: il
rapporto con la vita, le parole che denotano una intensa partecipazione
biografica e una devozione in ogni caso ostinata e coinvolgente
all’esistenza umana e alla pratica della scrittura e della lettura. Al di là e attraverso ogni precisazione di ogni discorso generazionale, e di ogni tentativo di contemplare o incollare cocci infranti.